Nella loro storia ampia e stratificata, le arti dell’ultimo secolo si sono spesso interrogate sul senso e sul non-senso dell’attesa, sulla sua dimensione sospesa legata a domande sul tempo, sull’esistenza, sul nulla e sulla nostra relazione col mondo. Da De Chirico a Kavafis, da Beckett, Fontana o Buzzati, le arti ci hanno mostrato così l’attesa prolungata e vana di un nemico che dovrebbe rompere i confini o di un amico lontano e ignoto, l’attesa dell’arrivo o del ritorno di una divinità assente; l’attesa densa di suggestioni fissata nel quadrante di un orologio su una piazza e nell’ombra lunga di una torre che ne taglia a metà il selciato, oppure l’attesa bloccata in un gesto che taglia una tela come apertura radicale verso uno spazio nuovo. Come reazione paradossale a un secolo sempre più segnato dal susseguirsi degli eventi e dei fatti, registrati ormai simultaneamente in tempo reale grazie alle tecnologie elettroniche, ai mass media e oggi alla rete, molti artisti hanno cercato e cercano ancora di scendere nel limbo posto tra lo scorrere del tempo e il suo arresto, nell’interstizio tra l’azione e l’inazione, nello spiraglio incerto che si apre tra la molteplicità degli accadimenti e la loro totale e immobilizzante assenza. Non a caso allora, già dal 1910, Giorgio de Chirico (che sull’attesa ha scritto parole molto suggestive) aveva fissato sulla tela l’immagine densa di un tempo contraddittorio diviso tra la fuga veloce e la fissità dell’attesa, tra le lancette del cronometro e la statua immobile, rispondendo all’intuizione di Kavafis sull’attesa di un arrivo mancato formulata poco tempo prima in Aspettando i barbari. Così un italiano nato in Grecia e un greco nato ad Alessandria, seguendo una lunga storia, potrebbero aprire questo percorso complesso che dal Mediterraneo al confine con i deserti si dirama verso la nostra contemporaneità trovando un nuovo sviluppo in questo progetto di Stefano Cioffi.
Il serrato ciclo di opere esposte, tutte in bianco e nero, strumento analitico e quasi progettuale di studio e di ricerca, è composto infatti da alcuni filoni differenziati che però Cioffi riconduce sotto un’unica idea conduttrice e costitutiva, un fondamento comune che racconta un’unica storia in molti, articolati, capitoli.
Con la fotografia Cioffi osserva, studia e rappresenta il mondo nella sua presenza inafferrabile e proteiforme, moltiplica il suo sguardo nella complessità delle cose, lo disperde nella folla, per poi ritrovarlo nella struttura unitaria che lo sorregge per cercare un’iconografia segreta che si nasconde nel cuore della realtà che cerchiamo di ricomporre attraverso la condivisione delle visioni e delle rappresentazioni singolari e collettive.
L’artista cerca di sfidare il trascorrere del tempo e della luce portando la sua indagine su più livelli, a partire da quello degli oggetti apparentemente banali e quotidiani che accompagnano la nostra vita e che spesso consideriamo inutili: Cioffi potrebbe quindi quasi dare la sua versione personale delle idee metafisiche di De Chirico che su quelle stesse cose ha costruito l’immaginario che ha lasciato una lunghissima eredità fino alla Pop Art e a molta arte installativa. Cioffi, su questa strada, scopre la solitudine lirica degli oggetti abbandonati, una sedia, un divano, una giacca o una bottiglia che si rivestono di una presenza speciale nella relazione quasi architettonica con lo spazio che li ospita, trovata con ostinazione nelle pieghe solitarie dei luoghi, in un’attesa che spesso rivela un distacco senza alcuna possibilità di redenzione. L’artista è arrivato a questo raggiungimento purificando il suo linguaggio nel tempo attraverso i codici costruttivi del bianco e nero con cui coglie con icastica esattezza il nucleo centrale dell’immagine che sceglie di fissare attraverso la macchina fotografica. In questo modo Cioffi riesce a essere allo stesso tempo estremamente sofisticato e semplice, elaborato e diretto, lasciando intendere molto di quello che vuole dire e di quello che è alluso nel suo lavoro nascondendolo dietro i meccanismi più evidenti dell’opera e scoprendone solo gli elementi più intensi con una qualità densa della rappresentazione e delle sue capacità comunicative.
In questo contesto, l’artista scopre anche le geometrie segrete che legano i corpi e gli oggetti nello spazio, i codici matematici che compongono armonie e cubature di vuoti sincronizzati con le cadenze delle luci e delle ombre per generare un costante sentimento di mistero.
Gli scalini e le sbarre, una coperta a righe o una panca tracciano linee lucenti e segni oscuri che demarcano l’enigma dell’attesa delle cose abbandonate, la loro immobilità solitaria nel riflesso del chiarore che avvolge la loro sostanza fisica, la loro presenza evidente e quella nascosta, catturate in un attimo fissato dallo scatto. Dunque appare particolarmente eloquente la foto in cui l’ombra avvolge un orologio luminoso, come in una dialettica tra l’oscurità dell’assenza e la lucentezza del tempo che dà forma a noi e alla nostra esistenza: nel confine circolare tra le tenebre e il chiarore di quel quadrante si colloca l’incrocio tra immobilità e rapidità, lo spiraglio che custodisce il nucleo dell’attesa nella sua temporalità dilatata.
Su questa stessa dilatazione del tempo, Cioffi ha riflettuto in modo costante in tutte le opere di questo ciclo, scoprendone l’essenza rivelatrice nascosta nei particolari o clamorosamente evidente al primo sguardo, distillandola nel momento che blocca le persone sedute a un caffè o in fila per un traghetto, il volto di una donna alla finestra o i ragazzi addormentati in treno, le donne povere sedute sugli scalini di una strada o l’uomo che legge su una panchina.
Il cammino di questa mostra si conclude idealmente quindi con le immagini della moschea di Roma, luogo della preghiera, ma anche del riposo e della speranza o della certezza dell’incontro con il divino, spazio della fede, della lettura e del silenzio, territorio delle geometrie metaforiche dove l’ornamento celebra all’infinito una Gloria trascendente espressa nella vibrazione delle trame stellate della decorazione. Gli uomini seduti o in preghiera, le scarpe tolte del rito, gli abiti dismessi nella nuda assenza del corpo che li abita, danno un ulteriore impulso alla riflessione di Cioffi sull’attesa, posta sul crinale incerto tra la stasi degli oggetti e delle architetture, l’immobilità delle figure e il movimento dei corpi, tra il tempo veloce e quello sospeso, tra lo spazio del moto e quello dell’arresto, nell’incrocio fecondo dove l’esistenza si ritrova proprio quando sembra dilatarsi e dissiparsi, coagulandosi infine nella più densa e ampia riconquista interiore di una nuova e più consapevole centralità alimentata proprio dal meccanismo e dal senso dell’attesa.