La frase “…un invito al viaggio…”, che spesso troviamo in resoconti storici e in famosi approfondimenti foto-reportagistici e ipotesi di rappresentazione di un paesaggio in evoluzione (Viaggio in Italia del 1984 e a Esplorazioni sulla via Emilia del 1986), è parte del nostro immaginario collettivo; qui può introdurre le fotografie di Stefano Cioffi incentrate sui circa 62 km del Mignone, fiume che va da Vejano a Civitavecchia dividendo le provincie di Roma e Viterbo.
Questo lavoro, dipanatosi in 8 mesi nasce dalla necessità di riportare e fermare la memoria rappresentata dagli anziani, i grandi vecchi di una zona che Cioffi conosce bene. E’ la campagna di Monterano, un’estensione ricca di reperti archeologici, di campagna ma anche di flora incolta, non molto lontano da Tolfa e Bracciano. I suoi incontri di persone ma anche di territori, lo hanno messo in contatto con un popolo variegato che ha scelto di riappropriarsi di luoghi che erano prima dei genitori o dei nonni, e di rianimare lavori e produttività – caseifici, allevamenti all’insegna dell’eco-compatibilità, tradizionali luna park, benzinai, negozi… – e rifugi abitativi sul fiume (datati fine anni Cinquanta e dati in concessione). Dal “come eravamo” è, insomma, passato al “come siamo” suggerendo un “come saremo” tutto da confermare.
Ciò attraverso – appunto – un viaggio fotografico trasformato in una serie di mostre e in un probabile libro; ma non ci sono solo le foto: Cioffi ha raccolto anche testimonianze video in una complessità preziosa che reca in sé anche scantonamenti afferenti ad altre discipline (Sociologia, Psicologia, nell’Antropologia…) ma che resta assolutamente visivo. Consta di istantanee di Paesaggio e Ritratti, due generi tra i più praticati nella e dalla Fotografia e, per questo, spesso terra di facile banalizzazione. Ma non è così, in queste messe a fuoco, che hanno tra loro il collegamento di un progetto e della sua concretizzazione ma custodiscono una valenza autonoma; il racconto che l’autore (ci) fa è appassionante, esteticamente rilevante, accattivante nella scelta di quelle particolari luci dominanti nei giorni di pioggia o al tramonto che egli valorizza immortalando un momento ma anche attivando una produzione di senso.
Il landscape selvaggio, abbiamo detto, accoglie o deve tollerare il segno che le persone hanno in esso lasciato: spesso è più il primo caso a emergere, perché la traccia umana sembra a suo modo rispettosa quando non in risonanza con la natura. Ciò nonostante, l’effetto generale di questo connubio è surreale, straniante, non solo per la luminosità e i contrasti scelti, tra l’altro sottoposti a minima postproduzione – il digitale, ci dice Cioffi, “semplicemente, permette un’applicazione a posteriori dei filtri utilizzati nella Fotografia analogica.” –, ma per quel tanto di “mistero” che sempre la Fotografia mantiene (per dirla alla Ghirri) e per quel carattere di “visione” e “rivelazione” (citando a braccio Anselm Adams) a cui dà forma. Talvolta granitica, altre più fluida, sfuggente…
C’è tanta acqua, qui: del fiume che arriva al mare, dei canali, di sorgenti, terme, della spiaggia; e ci sono la rena, una campagna florida che ha una sua dimensione ancora primitiva, un panorama mozzafiato e tutto quello che è stato costruito intorno: le casette di legno dei pescatori, qualche fabbrica, capannoni, strade desolate, la stazione deserta, il porto, un carcere…
Quanto riguarda l’uomo, seppure in massima parte restituito senza la sua presenza fisica, in ogni foto evoca un senso di languida tristezza anche per via di quella sospensione spazio-temporale che la Fotografia impone alla rappresentazione e che talvolta le dà un’aurea nostalgica. La Fotografia, per il suo congelamento della realtà, “volendo conservare la vita” (Roland Barthes, trad. it. La camera chiara. Note sulla Fotografia, Einaudi, Torino, 1980 p. 93), rivela il suo intimo legame proprio con la nostalgia (e inevitabilmente con la morte nel senso dato a ciò da Susan Sontag e da Roland Barthes).
Le vedute di Cioffi sembrano rispondere a quella “Ozymandias melancholia”, o di “Melpomene” [1], che corrisponde a quella particolare consapevolezza che nulla, neanche le più grandi opere d’arte, durano per sempre. Sarà, invece, proprio la memoria tramandata a eternare e a dare l’occasione al reportage di Cioffi di imporre alla poetica del quotidiano un innalzamento verso il lirismo.
Questo zoom su una precisa area geografica è un’avventura: il nostro autore cerca e trova esplorando: nulla di più lontano, dunque, di quell’Italia dei “viaggi domenicali minimi” [2] perché lui in questa serie scopre e riporta in luce aree meno familiari, talvolta semi-sconosciute ai più, lontane dal panorama consueto e stereotipato. Lo sguardo del fotografo è selettivo e già in questa parzialità sta l’autorialità.
Ciò è riscontrabile nei lavori collegati ai paesaggi, ovvero a quelle effigi di individui che Cioffi immortala nell’evidenza della loro attività e, quindi, di una loro presenza in foto dove la soggettività è rafforzata proprio dal loro essere lì, esattamente in quel posto, impegnati a fare quella determinata cosa che solo in quel momento trova il senso e la dignità di diventare ritratto.
Ci dice: “C’è voluto tempo, pazienza, delicatezza nell’approccio con tante persone diverse, per età, storie, cultura, per riuscire ad entrare nella giusta confidenza con loro e scattare le foto come le volevo”. In esse il soggetto è in tenuta casalinga o in quella della propria professione; ci sono la neomamma, i giostrai, gli operai, l’anziano pescatore, i commessi di supermercato, i lavoratori di caseifici o di aziende biologiche, i giovani bagnanti, i volontari di comunità, i muratori… L’empatia è volutamente tenuta a bada dall’autore, fedele, evidentemente, alla lezione di maestri che ritengono fondamentale “guardare alla fotografia come a un modo di relazionarsi con mondo, nel quale il segno di chi fa fotografia, quindi la sua storia personale, il suo rapporto con l’esistente, è sì molto forte, ma deve orientarsi, attraverso un lavoro sottile, quasi alchemico, all’individuazione di un punto di equilibrio tra la nostra interiorità e ciò che sta all’esterno, che vive al di fuori di noi, che continua a esistere senza di noi e continuerà a esistere anche quando avremo finito di fare fotografia.” [3].
La qualità più interessante di questo ciclo di ritratti non è solo nel “un punto di equilibrio” citato ma nella capacità di coniugare una carrellata enciclopedica più rigorosa possibile – quasi alla ricerca di un’asetticità dello sguardo – alla restituzione dell’“essenza” della persona, “al di là della semplice somiglianza” (Roland Barthes, cit., p. 107) riuscendo a riconsegnarci di questa, insomma, “l’aria (…), ciò che è presentato con garbo, privo di qualsiasi importanza: l’aria esprime il soggetto, in quanto non si dà importanza” (ibidem, p. 108); qualcosa che potremmo definire “morale, che apporta misteriosamente al volto il riflesso di un valore di vita.” (ibidem, cit., p. 109). Una vita rivelata grazie alla consapevolezza che tra singolo e territorio il filo è teso ed anzi il secondo, antropologicamente parlando, è corpo esteso mentre il primo “non è nello spazio” ma “lo abita” [4].
FOOTNOTES
1. L’espressione italiana è la traduzione nel doppiaggio del film di Woody Allen “Stardust Memories”, dove il protagonista prova questo sentimento e la coscienza che esso è giustificato; corrisponde all’originale inglese, citato nel film, “Ozymandias melancholia», e deriva dal poema di Shelley “Ozymandias” che racconta del colosso di Ozymandias che si sbriciola lungo i millenni;↑
2. Ghirri, L., Paesaggi di cartone, in Costantini, p., Chiaromonte, G., (a cura di), Niente di antico sotto il sole, SEI, Torino, 1997, p. 17;↑
3. Ghirri, L., Lezioni di fotografia, a cura di Bizzarri, G., e Barbaro, P., e scritto di Celati, G., Quodilibet – Compagnia Extra, Roma, 2010: dalle lezioni di Ghirri all’Università del Progetto di Reggio Emilia (gennaio 1989-giugno 1990), p. 21;↑
4. Fiorani, E., Il mondo senza qualità, Lupetti, Milano, 1995, p. 62↑